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Yvette Chentre

La cosa che più mi piace è vedere i bambini che si divertono recitando in patois.

Yvette e la sua famiglia
Yvette e la sua famiglia

La mia terra e le mie origini

Sono cresciuta a Saint-Pierre, un comune a dieci chilometri da Aosta che si estende tra la Dora Baltea fino ai tremila metri del Mont-Fallère. Conosciuto per i suoi due castelli : quello dei Sarriod-de-La-Tour e l’altro, di Sancto Petro, che sorge su uno spuntone roccioso accanto alla chiesa parrocchiale, il paese ha un borgo dove si affacciano diverse attività commerciali e una collina molto soleggiata anche in inverno.

Negli anni 80, il comune contava meno di duemila abitanti, di cui molti legati ai lavori agricoli, soprattutto alla coltivazione di mele e alla viticultura. Oggigiorno gli abitanti sono saliti a tremila : campi e frutteti hanno lasciato il posto a curate abitazioni ove risiedono, perlopiù, famiglie che lavorano negli uffici di Aosta.

La mia casa natale si trovava in un piccolo villaggio in collina, a 800 metri : La Charrère. I nostri vicini di casa erano quasi tutti contadini in pensione; alcuni avevano figlie o figli e qualche nipote. Tutti gli anziani parlavano patois e anche la maggior parte dei giovani. Solo alcuni, che venivano dalla città, si esprimevano in italiano.

Mi ricordo che, nel villaggio appena al di sotto del nostro, vivevano due famiglie di anziani emigrati che parlavano francese. Le donne, Margherita, Renata e Enrica, erano le uniche ad essere sempre ben acconciate e mettevano il rossetto sulle labbra. Ho imparato velocemente a dire “Bonjour” e a capire cosa volesse dire “faire la bise”. 

Tra di noi, in casa, si parlava unicamente patois con papà, mamma, nonna, nonno e zie.

Mio papà

Papà è nato nel 1951 ed è cresciuto a Saint-Pierre, nel piccolo villaggio di Orléans, a 1100 metri. Mi racconta sempre che la strada carrozzabile ha raggiunto il villaggio nel 1964 e che le persone, prima di quella data, si spostavano a piedi.

La famiglia di papà è originaria  di Bionaz; lassù c’è persino un villaggio che si chiama Chentre, proprio come noi. Il nonno di papà aveva acquistato una casa a Orléans e suo figlio, mio nonno, è nato a Saint-Pierre. Mia nonna Odette, invece, proveniva da Rhêmes-Saint-Georges e, durante la sua infanzia, aveva trascorso alcuni anni in Francia, in Savoia precisamente.

Papà parla il patois di Saint-Pierre ed ha sempre avuto la passione di insegnarmi le parole meno frequenti, quelle che rischiano di sparire. Mi ha insegnato le parole “péyan-a” (salamandra), “verdzahe” (scoiattolo) e “rattavoueilleudze” (pipistrello). Mi ha insegnato i nomi delle piante in patois : “la doille” (il pino silvestre), “la brenva” (il larice), “la péhe” (l’abete). 

Papà conosce i nomi di tutti gli utensili che si usavano nei lavori dei campi e nella stalla, come pure tutti i toponimi di Saint-Pierre. Quando sbaglio qualche parola oppure uso degli italianismi, mi corregge.

Papà lavorava all’Enel e, nella sua carriera, ha prestato servizio in diversi comuni della Valle d’Aosta con colleghi di Avise, Valpelline, Fénis, Châtillon, Valtournenche…Quando discorre con qualcuno che non è di Saint-Pierre, è in grado di adattarsi al patois dell’altro usando altri termini e modificando i suoni.

Mi ricordo che ogni tanto mi diceva : “Sai come le chiamano le carote a Valtournenche?”, oppure “A Châtillon ci sono due termini per definire il vento a seconda della sua provenienza”.

Posso affermare con certezza che papà è stato il primo a farmi apprezzare le varianti del patois valdostano

Mia mamma

Mamma è nata nel 1955 ed è cresciuta a Saint-Pierre nel villaggio di Alleysen. Mio nonno Cesare e mia nonna Denise erano entrambi di Saint-Pierre e, quando nasceva un dubbio su come si dicesse una certa qual parola in patois, nonna era il nostro punto di riferimento : “A Saint-Pierre si dice così. L’ho sempre sentito dire in questo modo”.

Mamma mi ha parlato sempre patois, ma mi racconta che, quando iniziai la scuola materna, parlai sempre e solamente italiano e questo è durato per alcuni anni.

Quando ne ebbi 7, mamma rimase incinta di mia sorella e mi ricordo che un giorno mi disse : “Mi piacerebbe che anche tua sorella imparasse il patois, come l’hai imparato tu. È dunque importante che tu le parli in patois quando nascerà” . Queste parole, benché fossi piccola, mi toccarono molto. Da quel giorno, ripresi, un po’ per volta, a parlare patois grazie alla mamma che mi fece capire quanto fosse importante per la nostra famiglia.

Il lessico della mia famiglia

Ogni tanto, nonna Odette usava dei termini del gergo di Rhêmes-Saint-Georges : “lo couèitse” (il padrone), “lo mélo” (il curato). Papà, quando gli va di scherzare, cerca di usare il gergo per vedere se capisco : “t’o dza apreustó lo nampio?” (Hai già preparato il sacco?) oppure “èitsa que dzen guédo!” (guarda che bel gatto!).

Mamma conosce tanti aggettivi che qualificano le persone e non sempre sono parole gentili ma divertono molto me e mia sorella : “ pleuro, badjàn, poutcho, toquetta, tordagne, mahù, euntordù, pouho matasse, tseucque, roha, rabadàn, ..."

Il mio angolo dedicato al patois : il teatro

Ho la fortuna di far parte della compagnia di teatro popolare La Tor de Babel sin dal 2015. La banda della Tor de Babel, come amiamo definirci, è composta da persone di ogni età, dai bimbi di 4 anni agli adulti che di anni ne hanno più di 50. Provengono quasi tutti da paesi limitrofi : Saint-Nicolas, Saint-Pierre, Aymavilles, Avise e Introd. Per me si tratta di un’occasione speciale per divertirmi e parlare patois con qualcuno che non sia la mia famiglia. Mandì (Ettore) scrive i copioni e mette parecchia cura nell’usare le parole giuste e spesso, insieme, cerchiamo di trovare antichi modi di dire oppure di correggere gli italianismi onde cercare di mantenere la ricchezza dei nostri patois.

Di questa esperienza, la cosa che più mi piace è vedere i bambini che si divertono recitando in patois.

Le mie ninne nanne, i miei modi di dire, i miei proverbi

Quando ero piccola, i grandi mi sedevano sulle loro ginocchia e cantavano facendomi sussultare “Trotta trotta mon melè, canque i pon de Tsezallè”, una filastrocca molto conosciuta in Valle.

Le nonne conoscevano tanti modi di dire : “Moutse a Tsalende, tsandèile a Paque" (Mosche a Natale, candele di ghiaccio a Pasqua), "Se lo trenta de joueun y è euncó renque eun pecò de nèi su la tso d'Ozèn, manque po l'eue d'itsotèn" ( Se il 30 giugno rimane ancora un po’ di neve sugli alti alpeggi di Ozein, l’acqua non mancherà durante l’estate), “D'eunna maladì fou jamì nen fée eungn'otra" (Da una malattia non bisogna crearne un’altra), "Lèi va de totte pe fée eun mondo" (Ci vuole di tutto per fare un mondo), "Lo fromadzo va eun devàn é lo pan reuste eun man" (Il formaggio va per primo e il pane resta in mano : si dice per i golosi che non amano accompagnare il cibo che amano con il pane).

In famiglia usiamo spesso certi modi di dire legati al lavoro e al modo di svolgerlo :  :"can t'i lé, te vèi" (lo vedi sul momento quello che devi fare) é "can l'è fa, l'è fa" (quando è finito, è finito, perciò è meglio sbrigarsi) oppure sulla ricchezza "l'a po frette i pià" (non ha freddo ai piedi cioè è ricco), "l'è pe lo pi reutso di chimichéo” (sarà il più ricco del cimitero…bella soddisfazione!).