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Nella Joly

È la lingua che uso quando penso e quando parlo da sola; è quella che utilizzo quando parlo con la mia mamma che ormai da 6 anni non è più qui con noi.

La mia terra e le mie origini

Arnad è un paese della bassa Valle d’Aosta. Lì io sono nata e lì ho pronunciato le mie prime parole. La lingua che mi hanno parlato fino ai 5 anni  è il patois, solamente il patois.

Il primo ricordo che ho risale a quando vidi per la prima volta la neve e dissi :

“Mamma, papà, venite a vedere quante farfalle e sono tutte bianche!”

Il mio papà

Martino, il mio papà, è nato a Tsampaserma, un villaggio a 915 metri, il 22 aprile del 1940 e, fino al matrimonio, ha sempre abitato le Traverse (la parte alta del paese) : Tsahté, Tsampaserma, Arla, e La Quiva, per un solo mese estivo. La sua famiglia viveva di ciò che la terra offriva e si spostavano regolamente a seconda delle stagioni, da un villaggio all’altro con una mucca e alcune capre. Papà è andato a scuola a Bouanvehe fino alla quarta classe; la quinta la frequentò poi al Palah. Durante le vacanze, si prendeva cura delle capre. In seguito, partì soldato e, al ritorno, passò due anni a servizio a Chamois con suo zio Pierre; anche lì si occupavano delle capre.

Nel 1964, il 21 marzo, si sposò con Rosina, la mia mamma e, dopo tre mesi, nacqui io. Mia sorella Ida arrivò due anni dopo ed ho pure un fratello, Renzo, che ha dieci anni meno di me.

Papà e mamma hanno sempre avuto 4 o 5 mucche; lavoravano i campi e le vigne che prendevano in  affitto. Papà lavorava anche fuori casa e, più tardi, fu assunto come cantoniere in Comune.

Sin da ragazzine ci facevano andare nei campi a lavorare; soltanto quando s’andava al pascolo di pomeriggio, potevamo giocare un po’ mia sorella ed io. A Piàn, avevamo già il trattore e la falciatrice; papà mi ha insegnato a stendere il fieno, a smuoverlo, a farne file e bracciate e a caricare il trattore “alla piemontese” : lui mi buttava le forcate di fieno ed io dovevo ammassarle per far sì che prendessero la forma del cassone. A volte mi tirava forcate così pesanti che mi facevano perdere l’equilibrio, ma non osavo lamentarmi.

Eh sì che diventavo sveglia ad appiattire quel fieno!

Papà è sempre stato un uomo molto robusto e un gran lavoratore : lui sa fare di tutto e così, molto spesso, lo venivano a cercare per diverse incombenze: ammazzare il maiale, imballare, trasportare il fieno, la legna o il letame con il trattore, sistemare fili a sbalzo…Lui non si tirava mai indietro e, se poteva, scambiava le giornate perché, quando lo volevano pagare, non osava prendere soldi!

A 14 anni, mi ha insegnato a guidare il trattore così, in estate, la mamma ed io potevamo portarci avanti con i lavori dei campi.

I miei genitori hanno continuato a lavorare le terre dei loro avi, alle Traverse e lì bisognava fare tutto a mano: ho imparato a seminare le patate come facevano una volta, a rincalzarle e a cavarle, a mietere, a fare i covoni, a tagliare l’erba con la piccola falce laddove la grande non poteva farlo, ad ammucchiare il fieno e impacchettarlo. Mi ricordo che facevamo scendere a valle i pacchi di fieno con il filo a sbalzo; in seguito, avendo già la macchina imballatrice, si imballava il tutto e si portava al fienile.

In inverno, dopo cena, andavamo a “veglia” nella stalla e lì, sulle foglie secche, se non aveva troppo sonno, papà ci insegnava a giocare a carte : a briscola, a scopa e a tressette. Puntavamo soldi e che gioia quando si riusciva a vincere due monete da 5 lire! Se papà dormiva e mamma faceva la calza o la maglia, mia sorella ed io giocavamo alle “maestre”.

Alle nove, mamma preparava il giaciglio di foglie per le mucche e andavamo a letto.

Mia sorella ed io avevamo una camera tutta per noi, ma era all’esterno; occorreva salire due rampe di scale. In inverno, quando il freddo era molto pungente, dormivamo vicine, una accanto all’altra, in un grande letto, per scaldarci. Anche i servizi erano all’esterno, ci si faceva l’abitudine e andava bene così. Ci lavavamo in casa in grandi mastelli che la mamma riempiva d’acqua calda presa dal bollitore della stufa.

La mia mamma

La mia mamma Rosina è nata il 13 maggio del 1943 a Htsalogne. Anche lei, come papà, è cresciuta alle Traverse, la parte alta di Arnad : Revie, Tsampaserma, Ehtsalogne, Lé Bahèye e il Mon d’Artse ed è andata a scuola a Bouanvehe: lei e sua sorella scendevano a piedi con la minestra per il pranzo in un pentolino, ma quante volte il pentolino perdeva il contenuto lungo il percorso e, così, per quel giorno, niente pranzo! Ogni giorno, occorreva pure portarsi appresso due pezzi di legno per la stufa della scuola.

A due anni, mamma perse suo padre: Bréze che chiamavano Bréze di Tóbe cadde da una pianta mentre stava raccogliendo fogliame, gli uscì un’ernia e se ne andò così. La mamma si ricorda del papà coperto da un lenzuolo : si arrampicava sul letto e voleva fare la nanna con il suo papà.

Era il 1945, in piena guerra e lasciò una mamma con quattro bambini! La nonna si risposò tre anni dopo con Quéve, un uomo buono ma severo; mamma racconta che non osavano neppure parlargli talmente incuteva timore. Io lo ricordo Quéve : aveva i piedi violacei e le caviglie sempre gonfie a causa di un congelamento avvenuto durante la campagna di Russia.

Papà e mamma si sono conosciuti a Tsampaserma. Le loro due cucine erano separate soltanto da assi annerite dal fumo; la mamma asseriva che era bello parlarsi da una cucina all’altra e farsi pure gli occhi dolci…

A 16 anni, andò a lavorare in fabbrica, alla Sirca David ad Arnad : producevano cioccolato e uova di Pasqua.

Mamma ci raccontava delle belle storie, quelle che già sua madre aveva raccontato a lei: mi ricordo la storia di un bimbo piccolo come il mignolo che una mucca mangiò non vedendolo nascosto dietro un fascio d’erba; quella di un bimbo a cui la matrigna infilava nelle orecchie le forbicine, insetti dalle fauci taglienti; quella di Pollicino, di Biancaneve e poi tutte quelle di magia e di fantasmi che mi facevano paura ma che amavo comunque ascoltare. Poi c’erano le storie del diavolo e di San Martino. Il diavolo pensava di essere più scaltro del santo, ma veniva sempre beffato e si arrabbiava tantissimo, come un diavolo, appunto!

La sera, in stalla o in casa accanto alla stufa, mamma ci leggeva i libri della biblioteca della scuola che la maestra ci imprestava.

Mi ricordo di quei momenti come fosse adesso, che belli erano! Avrei voluto che quelle storie non avessero mai fine!

La mamma, poi, aveva tutto un suo repertorio di indovinelli:

Passa la Dora senza fare ombra ( il suono delle campane) 

Un appuntito, due luccicanti, due ricurvi, quattro mazze e una scopa (la mucca)

Una fontana in mezzo al prato, piove e nevica e non bagna (la mammella della mucca)

Piena la stalla di mucche rossicce, ne entra una nera e le fa uscire tutte ( il forno pieno di pani e la paletta per il pane)

Quattro bottiglie stappate in mezzo al prato, girate in giù ma non si svuotano (i capezzoli della mammella della mucca)

Quello vivo beve e il morto canta (quando la mucca beve alla fontana, il campanaccio che ha al collo suona)

Un ciuffo di olina su una collina, non è né verde né secco (i capelli).

Il patois che si parlava in famiglia

Il patois dei Traversén si differenziava un po’ da quello che si parlava nel capoluogo. Era, diciamo, più gridato, anche l’intonazione era diversa come pure molte parole :

seu e dzeu (su e giù) al posto di su e dzu; leutche (luce)/lutche ; fén (fumo)/feun ; demàn (domani)/doumàn ; dja (gioco)/ djouà…

Posso dire di aver imparato l’italiano a cinque anni, quando ho frequentato l’ultimo anno di asilo.

Le espressioni che sentivo spesso pronunciare dai miei e che sento anche oggigiorno da papà sono:

“Prendi le cose come vengono” ; “Guardati da…” ; “Non c’è una disgrazia senza una gioia”.

Mamma diceva spesso :

“Sia fatta la volontà di Dio” ; “ Non sappiamo come diventeremo” ; 

“Ogni tempo arriva per chi lo sa aspettare”:

“Occorre sempre pensare al bene perché il male vien da solo”.

I miei amici

Con i miei amici di Arnad ho sempre parlato patois: durante la ricreazione a scuola, a casa quando giocavamo a nascondino vicino all’aia di Olindo, quando costruivamo baracche, ristoranti, quando si giocava allo schiaffo, ad acchiapparsi, a palla prigioniera. Nascondino lo chiamavamo anche “gioco pertoucca” perché, quando uno si liberava senza farsi trovare diceva:

Pertoucca per me!”.

Mi piaceva la nostra casa, anche se era semplice e vecchia, senza alcuna comodità. Me ne vergognavo un po’ quando veniva a giocare da me la mia migliore amica di scuola, Patrizia. Lei aveva una bella casa nuova a Prouve ed io trovavo mille scuse per non farla entrare. Andavo però spesso in casa sua, soprattutto in inverno, a guardare la TV dei Ragazzi : noi non avevamo ancora il televisore.

Mi ricordo di un’altra amica che avevo quando ero già più grande e andavo a scuola a Verrès. Lei avrebbe voluto vedere la mia camera e, non sapendo che scusa trovare, le dissi che avevo perso la chiave!

Quello che mamma mi ha insegnato

Scioglilingua

Crotón dé grop, grop dé crotón, crotón dé grop, grop dé crotón (intraducibile)

 (occorre dirlo il più velocemente possibile, senza interruzioni)

Ho preso un chicco di riso nella ciotola,

papà pronuncia marcatamente la “r”, mamma anche, io no!

(oppure papà pronuncia la “r” alla francese, mamma anche, io no”)

Gioco delle dita

Questo va a far legna (il pollice)

Questo va a prender acqua (l’indice)

Questo prepara pranzo (il medio)

Questo mangia tutto (l’anulare)

Al piccolo non rimane nulla (il mignolo)

Se hai fame

Se hai fame mangia una mano

E conserva l’altra per domani.

Il cuculo

Al mese di maggio, quando sentivamo cantare il cuculo, dicevamo :

“Cuculo dalla barba htouza (intraducibile) tra quanti anni sarò sposa?” e poi contavamo quante volte cantava “cucù”

“Cuculo dalla barba bianca, quanti anni ho ancora da vivere?”



Le ninne nanne

Trata beata

Mamma mi sedeva sulle sue ginocchia, volta verso di sé, mi prendeva per le braccia, mi faceva dondolare cantando:

“Trata beata, fila di fino, fila grossolanamente, fai la camicia del nonno

Solo stoppie, niente lino

Fren fren fren fren “ (Mi scuoteva e ridevamo da matti)

Dormi Quinquetta

Dormi Quinquetta, la mamma va alla Messa

Il papà va a Roma

A comprare una bella mela

Per la bimba, dormi Quinquetta”

Il mio spazio dedicato al patois

A 16 anni avevo la passione di scrivere poesie in patois che narravano i villaggi delle nostre Traverse, gli usi e le tradizioni del mio paese, i momenti della vita di una volta che, grazie anche alla nonna Luisa, ho avuto la fortuna di conoscere e di vivere.

Sono così entrata a far parte della compagnia di teatro “Lo Beufet d’Arnà”: un’avventura che è durata 15 anni. Ho imparato a recitare grazie all’esperienza di quelli più vecchi di me, ho scritto farse per far divertire la gente ma anche per far riflettere, ho condiviso con i ragazzi del gruppo momenti che resteranno per sempre impressi nel mio cuore. Nel nostro piccolo, abbiamo soprattutto cercato di mantenere vivo il patois, le belle tradizioni della Valle d’Aosta portando il patois di Arnad e il suono del  “befet” (un corno di caprone che i nostri avi usavano per comunicare da un villaggio all’altro) in giro per la Valle e anche più lontano.

Per sette anni ho lavorato presso il Brel : sono stati anni importanti per la mia formazione e mi hanno fatta crescere professionalmente.

Ho anche seguito i corsi organizzati dall’Assessorato alla Cultura per diventare insegnante di patois.

La mia lingua del cuore l’ho insegnata a mio figlio Fabien. Sin dalla nascita, gli ho parlato patois e francese. L’italiano lo ha imparato dalla televisione poi a scuola e con gli amici.

Anche suo padre gli ha parlato sempre patois, il suo, che è quello di Gressan.

Sono un’insegnante della scuola dell’infanzia e, ai miei bimbi, ogni giorno parlo un po’ patois. Cerco di usare la variante di Gressan perché il mio patois è troppo diverso. Insegno loro i nomi dei giorni della settimana, dei colori, i modi di salutare, le canzoni.

Ogni anno prepariamo il lavoro per il Concours Cerlogne con la collaborazione di genitori e nonni; partecipiamo anche alla festa ed al percorso di animazioni in classe proposto dagli esperti.

Da quando insegno a Gressan, mi pare che, lungo questi ultimi 5, 6 anni, la politica di promozione nelle scuole abbia dato buoni risultati e che anche in famiglia si ritorni a parlare di più e più volentieri il patois ai bambini. E loro imparano in men che non si dica!

Concludendo, posso affermare che il patois ha avuto ed ha una grande importanza nella mia vita.

È la lingua che parlo con tutti i miei parenti, con molti amici e amiche, con i compaesani di Arnad e che uso anche sul luogo di lavoro.

È la lingua che uso quando penso e quando parlo da sola; è quella che utilizzo quando parlo con la mia mamma che ormai da 6 anni non è più qui con noi, ma proprio la lingua che lei mi ha insegnato mi aiuta a sentirla e percepirla un po’ più vicina.